sabato 6 giugno 2009

Weekly Reviews

Niente da dire 
se non cera lui
non cera il concetto di voce
per questo
questa settimana il link è poco e allora si pubblica tutto.
Come lavrei scritto, se avessi potuto scriverlo come lavrei scritto.
Se fossi stato libero ma di una libertà semplice, che fa cambiare quelle due tre paroline che ti permettono di sentirti meglio, chè hai detto tutto ciò che avevi dentro.
Sull'argomento, perchè se poi parliamo in generale, di dire tutto si finisce per scomparire, e rimanere solo anima.
Ri-Ascoltatevi l'album, quello originale, e poi ne riparliamo


Buckley Jeff: DAL FIUME VOLATO SU UNA STELLA (scivolando a primavera)

Storia abusata, perfetta per Buckley Jeff, esterno/interno giorno/notte: “ma troiaccia la miseria, con tutta la gente che c’è, proprio lui ti dovevi portare via ?”.Per l’età, per il talento, per il fatto che ha fatto un solo album. E questo proprio non te lo perdoniamo. Pensate cosa avrebbe potuto fare dopo. Un autore da brivido


Come è possibile che un animale da palcoscenico, un musicista, un artista, cominci ad interpretare un mare di cover, scriva un album, Grace, un capolavoro ma sempre un album, riesca appena a buttare giù quattro pezzi per quello successivo, e diventi immediatamente, quasi religiosamente, l’uomo e la voce simbolo di un’intera decade? Forse per una morte sconvolgente, improvvisa, antieroica, casuale e per nulla dannata alla tenera età di 31 anni. O forse per il viso d’angelo che guidava le sue labbra ad esplodere una voce che non ha mai, ante e poste, avuto uguali nella storia della musica. Deve essere proprio questo. La fonte di quella sensazione di brividi che accarezzano la schiena e il senso di vuoto che si avverte ascoltando la profondità della sua schizofrenia vocale, elegante e struggente, tale e quale alla sua vita, vissuta al massimo tra la California, New York e la sua Memphis, meta ultima e rifugio di pace dal tornado che lo aveva investito dopo Grace. Figlio del grande compositore folk-rock Tim Buckley, Jeff non ebbe mai una vita troppo semplice, per quanto possa non averla semplice un bambino della media alta borghesia di fino in bilico tra cultura arte e sensazione che un giorno la vita ti andrà troppo stretta, il tutto a cominciare dal rapporto con il padre, figura ingombrante e assente insieme, con cui non ebbe praticamente mai contatto fisico e nella quale si rifugiò solo troppo tardi, dopo anni di non amore, dopo la sua morte nel ‘91, dove un concerto tributo fu l’occasione per Buckley Jr. di rendere il suo omaggio struggente e chiedere scusa delle mancanze reciproche. “I used that show to pay my last respect”, disse poi. Che Artista padre e che artista figlio, anime che dovrebbero comunicare, e che invece rimangono sole. Apoteosi di un pubblico, che sapeva di ascoltare dal vivo qualcosa che difficilmente avrebbe ascoltato di nuovo, e un’industria musicale che finalmente cominciava ad inquadrarlo.

Poi arriva il 1993, e arriva Grace, primo e ultimo album.

Grace è Jeff Buckley, Jeff Buckley è Grace, un album. L’album della vita, forse l’unico album solista (almeno dall’inizio degli anni ’90 ad oggi) che non si ascolta, ma si sente dentro, che cola dentro come lava bollente, dal primo all’ultimo minuto, pezzi inediti, gorgheggi, cover immaginifiche. Tutto compreso.

Scrivi un solo cd in cui metti dentro tutta la tua anima e in ordine sparso, cronologico e spaziale, Tom Yorke, Jimmy Page, David Bowie, Pj Harvey, Bob Dylan, Lou Reed, Chris Cornell, Chrissie Hynde, The Edge, Robert Plant, l’Olympia di Parigi, milioni di fan e mezzo mondo sentono senza capire bene perchè, vogliono ascoltare la tua voce, vengono ai tuoi concerti come fossero liturgie (tanto che poi Buckley fu costretto a rifugiarsi col canto in un piccolo bar di Memphis per evitare la pressione delle aspettative) e ti rendono un mito prima ancora che tu lo possa materialmente diventare.

Perchè Jeff Buckley lo è in effetti, se possibile, ancora più di Jim Morrison o Kurt Cobain o Jimmy Hendrix.

A differenza loro non ha tracciato un percorso nella storia della musica, ma a differenza loro è l’immagine più vicina a un Dio della mitologia Greca che la musica abbia visto presentarsi su un palcoscenico, l’eterno ragazzo, immortale, colui che scrive una cosa e quella rimane, immortale anche lei.

Forse De Andrè scrisse la canzone di Marinella proprio pensando a Jeff Buckley, o forse semplicemente anche lui, come Marinella, decise di essere il profumo di una rosa trasportata dal vento.

Per questo, per rendere omaggio all’uomo, all’album e alla voce Jeff Buckley, Mary Guibert (la madre di Buckley e forse per questo il mio naso rimane relativamente storto) come produttore esecutivo, tramite Sony, raccoglie in un cofanetto deluxe una serie di esecuzioni dal vivo finora inedite del periodo 1994-95, tenute sul palco e in studi televisivi che vanno da U.S.A. e Regno Unito, a Germania, Giappone e Francia (alcune delle nazioni dove Buckley è stato l’artista best-seller numero uno).  Il DVD di 108 minuti Grace Around The World sarà accompagnato dal corrispondente CD audio, e da un terzo DVD documentario di un’ora creato da Laurie Trombley (a capo del fan club di Buckley) e Nyla Bialek Adams, entrambe fan di Jeff e per la prima volta coinvolte nella realizzazione di un film. Sono comprese delle esecuzioni rare e registrazioni in studio non pubblicate (selezionate dagli archivi della Columbia Records), filmati, e interviste con Buckley.

Esercizio commerciale, che di queste porcate in giro se ne vedono a sfacelo,

esercizio di necrofilia di menti raffinate, che non piace ammetterlo ma piace,

ma soprattutto l’ennesimo dovuto ringraziamento ad una leggenda mitologica che ha donato la sua vita ad un fiume, per guadagnare l’immortalità.

Pierinoeillupo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


mercoledì 3 giugno 2009

Accalappiacani

Accalappia

cani

anime di cani

colui che porta in dote la dote bastarda

che basta un nonnulla un dono del signore

perchè ci fotta il nostro comune essere bestiali

e ci scordiamo dei cani

 

Accalappia

anime

anime di uomini

chemi parli e mi parli

e mi parlano

e non riesco ascoltarli

che mi sento vicino

che mi sento il respiro all’orecchio

ma mi sento non riesco ascoltare

e che se parlo meglio mi sento 

non riesco ascoltare

le risposte micaso scemo

mica sietscemi allora saranno

mondi differenti

che si incrociano

diffi-coltà-direciproca-comprensione

colpa mia

colpa di essere

colpa di essere malpensante

con curiosità di poco conto

lunedì 1 giugno 2009

Finestra dall'altodel La vita del piccolo scavatore di buche (chi si fa le buche sue supera agevolmente i cento anni)

Questa è la historia del piccolo scavatore di buche, nato da una buca

in cui però non ebbe mai la coscienza di riconoscersi.

Almeno finchè il tempo non gli diede in mano una piccola vanga

per cominciare a scavare.

Almeno finchè un giorno qualcuno non gli diede una ragione

per continuare a scavare.

Una tenuta da lavoro un cappellino per proteggerlo dal sole

ed un sopraintendente che lo cullava come le onde cullano i pesci.

All’apparenza.

Frusta e carota. Sale e limone. Panna acida e zucchero.

L’esistenza del piccolo scavatore era legata al tempo. Soprattutto passato.

“Perché non hai futuro, perché chi nasce schiavo, tutta lavita schiavo rimane”

diceva il sopraintendente, che essendo sopraintendente

pur non sapendo se la intendeva.

“Perché chi nasce re, sempre schiavo tutta vita rimane, ma non lo sa.

E non lo sanno neanche gli altri. Per cui ben per lui che sia re”

Pensava invece lo scavatore, assorto nelle sue buche

in cui, nemmeno lui sapeva come, vedeva riflesse le sue giornate.

“Se non migliori, se non capisci, scaverai buche tutta la vita”. E intanto la vita era passata.

E per fortuna che arrivava sempre la primavera. E con lei anche il sopraintendente.

Ma più spesso il sopraintendente.

Saluta il signor sopraintendente, e il piccolo scavatore salutava il sopraintendente.

E se glieloavesserochiestoavrebbesalutatoanchesestesso.

Apparentemente soddisfatto. Apparentemente. Soddisfatto

che poi in realtà il piccolo scavatore

faceva una sua scelta

discavarelebuche

come il re faceva la sua scelta di essere re

e scavare altre buche

dove nessuno poteva vederlo

nemmeno il sopraintendente

che dal canto suo faceva anche lui la sua scelta.

Ma soprattutto la faceva il piccolo scavatore

che se avesse voluto

avrebbe anche potuto smettere per sempre

di scavare le buche, che tanto sotto la terra c’era la terra.

Questo però se fosse stato tutto come quando uno pensa bene

che la cosa giusta è a un passo di buca,

e non come quando invece si smette di pensare così, che è come spesso la realtà.

 

-Finale---------------------------------------

(Primo Finale, final tropo triste nemmeno troppo vero)

Nessuno notò quindi, neppure lui stesso, che la malinconia non lo scavatore, scavavano quelle buche

e che quella cava in realtà era solo il fondo della sua anima

che avrebbe fatto codesto per il resto della sua vita,

scavare buche nel fonde della sua anima

perché in più non sapeva fare nient altro

non sapeva come fare nient altro.

 

(Secondo Finale, finale  triste ma meno del precedente e forse più vero)

ma in fondo c’era qualcosa che lo rendeva felice allo scavatore

probabilmente la parafrasi giusta per descrivere ‘sta cosa

è “masochismo”

o “piacerenelloscavarelebuche”

o terza possibilità

il tempo gli faceva credere così, chè la vita intanto passava,

o quarta possibilità

e ultima possibile

il piccolo scavatore ricavava la sua dose di felicità quotidiana

dal fatto che scavare le buche lo rendeva uno scavatore

seppur piccolo,

e lo salvava dalla paura di non essere niente.

 

 

(Terzo Finale, finale aperto, solo un po’ triste mentre si legge, ma foriero di speranza alla fine)

Il piccolo scavatore sapeva però

più degli altri

o forse allo stesso modo degli altri

ma non lo sapremo mai

>Perché va detto la globalizzazione è una cosa e la comunicazione è un’altra cosa. Due<

che scavare buche non era poi così male

se presa dal punto giusto della vista,

     la vanga e la buca e la vita.

Ma non aveva scoperto il punto giusto

chè scavava sempre nello stesso.

 

domenica 31 maggio 2009

Weekly reviews

-C’hai fame?

-No, mi sono appena svegliato

-No?!E allora come facciamo?

-.C’ho fame.

 

-Cho i soldi?

-No, chai una lira

-No, ma allora come faccio che tumidici sempre che cho i soldi?

-.Chai soldi.

 

Le risposte sono quello che aspettiamo

s se magari non lo sono

le aggiustiamo

che tanto il cervello è una macchina

che aggiusta quello che c’è da aggiustare

e dimentica quello che c’è da dimenticare

e forse qual cosina in più

 

Per tirare a campare


Ma non per tirare a campare sono invece le recensioni di questa settimana,

che andrebbero aggiustate

anche revisionate perfino

ma non dimenticate:

da Pierinoeillupoeditore per tutti i gusti

il piccolo Maryli Manso e Simple Minds